Sono giorni difficili quelli che sta affrontando la nostra Italia, inutile dirlo.
Siamo in una situazione di emergenza che, in un modo o nell’altro, tutti abbiamo sottovalutato.
Veniamo chiamati ad una grande responsabilità: stare a casa per consentire al Servizio Sanitario Nazionale di non collassare e di poter svolgere il proprio lavoro, già terribilmente messo alla prova da numeri da capogiri e azioni spesso sconsiderate.
Ci viene chiesto di STARE A CASA e a me sembra un’occasione preziosa.
Abbiamo la possibilità di rallentare la frenesia che attanaglia le nostre vite, di riscoprire i pomeriggi sul divano in compagnia dei nostri cari.
Un tempo di pausa senza dubbio forzata dunque e in un clima di forte preoccupazione che però ci consente di occuparci di noi.
Chiusi in casa ma aperti alla vita dentro e fuori.
Io dalla mia cercherò di condividere con voi i miei pensieri perché Le Pagine di Vale non sono mie ma nostre.
Oggi allora voglio raccontarvi una storia.
Era il 9 marzo del 1842 quando alla Scala di Milano debuttò uno dei capolavori di Giuseppe Verdi.
L’Italia non attraversava un periodo semplice: vittima dell’oppressivo dominio austriaco, vide nelle vicende narrate nel “Nabucco” la sua stessa condizione.
Verdi raccontava degli ebrei gravati dal potere del sovrano assiro Nabucodonosor da cui originariamente prese il nome l’opera, poi abbreviata dopo la prima rappresentazione.
Viene raccontato proprio quel dolore, lo strazio degli ebrei prigionieri e deportati a Babilonia, costretti a lavorare incatenati e privi di ogni dignità.
Verdi lega idealmente allora il loro destino a quello degli italiani che sognano di liberarsi dal dominio austriaco per unire il proprio paese:
Gerusalemme era l’Italia da liberare e gli ebrei rappresentavano gli italiani stessi.
Verdi voleva infondere nei suoi connazionali coraggio, fare appello al senso patrio più profondo come viene ben sintetizzato da uno dei cori più famosi contenuti nella terza parte del Nabucco.
Il cuore inizia a pulsare forte già al richiamo del primo verso:
“Va, pensiero, sull’ali dorate…”
La mente si perde in quel coro così forte, in quell’appello appassionato
“Le memorie nel petto riaccendi,
Ci favella del tempo che fu”.
Gli ebrei sognando la loro patria perduta cercavano di infondere coraggio nelle loro anime, di reagire alla sofferenza.
Gli ebrei di Nabucodonosor in qualche modo siamo noi italiani oggi, prigionieri di un virus che sfida i confini nazionali, che ci scopre fragili, incapaci di capire che ad ogni nostra azione sconsiderata seguiranno conseguenze pesanti.
Tutti noi però possiamo ascoltare oggi quel “Va pensiero”, lasciarlo vagare sulle ali d’oro:
sono quelle dell’immaginazione che caratterizza da sempre la storia del nostro paese e che ci ha reso amati in tutto il mondo,
sono quelle della responsabilità che ci deve spingere ad amare l’altro come noi stessi oggi più che mai,
sono quelle che sostengono turni interminabili per il personale sanitario che mette in pericolo la propria vita per salvare la nostra,
ma soprattutto sono le ALI DORATE DELLA SPERANZA E DELLA CERTEZZA CHE L’ITALIA USCIRA’ DA QUESTO MOMENTO COMPLESSO.
Spezzeremo le catene del virus che ci ha resi prigionieri con la conoscenza che ci rende eccellenze mondiali e, alla fine di questa oppressione, dovremo con grande forza e determinazione ricostruire la nostra Italia.
Un’Italia messa alla prova non solo a livello sanitario ma anche economico, turistico, culturale.
Lo faremo proprio come quegli ebrei cantati nel Nabucco e come gli italiani che ci hanno donato una terra unita.